Utilizzo delle dichiarazioni dell'indagato nel verbale di constatazione
La sentenza in commento ripropone il tema dell’ utilizzo delle dichiarazioni dell’indagato rese all’interno del verbale di constatazione senza l’adozione delle garanzie di legge.
Nel caso di specie, l’argomento si pone con riferimento a dichiarazioni rese dall’indagato senza le prescritte garanzie di legge ma utilizzate nei confronti di un terzo soggetto.
La vicenda nasce dall’impugnazione di un’ordinanza con cui il Tribunale di Napoli, con funzione di riesame reale, rigettava l’istanza di riesame avverso il provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale con il quale si era disposto il sequestro preventivo, in via diretta e per equivalente, a fini di confisca, in relazione al reato di cui agli artt. 81, cod.pen. e 2 d.lgs 74/2000.
Nel ricorso per cassazione l’interessato eccepiva, tra l’altro, l’errata applicazione degli artt. 220 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale e 63, comma 2 e 64 del codice di procedura penale poiché il Tribunale, a suo dire, aveva posto a fondamento della valutazione del fumus commissi delicti le dichiarazioni rese da un altro soggetto - terzo indagato - assunte dai verbalizzanti in violazione degli artt. 62 e 63 del codice di rito.
La Cassazione ha ritenuto tale motivo manifestamente infondato.
Premette la Suprema Corte che, a norma dell'art. 220 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale debbano essere compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice di rito.
Ricorda che il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale.
Tale natura non muta sia che venga acquisito quale atto irripetibile (come ritenuto da una risalente pronuncia, Sez. 3, n. 36399 del 18/05/2011) ovvero quale prova acquisibile ex art. 234 cod.proc.pen. (come affermato in epoca più recente da Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008).
Tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall'art. 220 citato poiché, altrimenti, la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non sarebbe utilizzabile (Sez.3, n.54379 del 23/10/2018; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008).
Ne consegue che la parte di documento compilata prima dell'insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito.
Il presupposto per l'operatività dell'art. 220 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, cui segue il sorgere dell'obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010; Sez. Un., 28.11.2004, n. 45477; Sez. 2, 13/12/2005, n. 2601).
Nondimeno, prosegue la Corte di Cassazione, la violazione dell'art. 220 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale non determina automaticamente l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell'ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l'inutilizzabilità o la nullità dell'atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l'art. 220 rimanda.
Nella specie, il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 62, 63, comma 2 e 64, cod.proc.pen. quale violazione di norme processuali che avrebbero determinato l'inutilizzabilità degli elementi probatori a sostegno dell'ipotesi accusatoria.
Tale doglianza non è fondata innanzitutto poiché l’inutilizzabilità assoluta, ai sensi dell'art. 63, comma 2, cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese da soggetti che fin dall'inizio avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di imputati o di persone sottoposte ad indagini richiede che a carico degli stessi risulti l'originaria esistenza di precisi, anche se non gravi, indizi di reità e tale condizione non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che il dichiarante risulti essere stato coinvolto in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a suo carico (Sez.1,n. 48861 del 11/07/2018).
Inoltre, e ciò è dirimente nel caso di specie, le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini, ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili contro chi le ha rese ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, in relazione ai quali non opera la sanzione processuale di cui all'art. 63, comma 1, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 2, n. 5823 del 26/11/2020; Sez.2, n.23594 del 11/06/2020; Sez. 2, n. 30965 del 14/07/2016).





